Alessandra l'ho conosciuta un giorno di maggio.
E' una di quelle donne che dici che "c'ha una capoccia così". E poi è gentile, dolcissima e quando parla o scrive io fremo, perché spesso mi dice cose che "sono mie" e che magari ancora non lo sapevo.
Vabbè, questa è la sua prima volta e io sono felice e onorata che abbia deciso di raccontarmela.
Il giorno in
cui ho avuto il mio primo ciclo mestruale me lo ricordo abbastanza bene. Avevo
tredici anni ed era il tredici di aprile. Una data che poi in fondo è stata
significativa e in cui mi sono capitate altre cose importanti. Mica perché
l’avevo preventivato ma perché come spesso capita ci sono numeri che ritornano.
Sapevo già tutto quello che c’era da sapere, almeno da un punto di vista
biologico. Mi sedevo comodamente in un tappeto, dietro una poltrona, e leggevo
avidamente un’enciclopedia che veniva tenuta in bella vista e che si intitolava
«Professione donna». Era blu scura con dei volumi sottili ma dettagliati di foto
e spiegazioni. E io la consultavo perché pensavo che se essere donna era addirittura
una professione allora mi sarei dovuta documentare presto. Anche perché nessun*
si era mai sognat* di informarmi in tal senso e avevo come la sensazione che
avrei dovuta fare da sola su una roba serissima. In compenso, non sapevo quasi
niente del mio corpo. Come mi è capitato per alcuni anni successivi, credevo
che la testa precedesse il (mio) corpo e che quella scoperta sarebbe stata una
difesa.
Insomma, ero
alla casa al mare con genitori, fratello e sorella. Non ho accusato nessun
dolore, nessun patema o turbamento che mi potesse avvisare di qualche modifica
in atto. Sapevo qualcosa di assai vago sulla spm ma evidentemente a me non
accadeva niente. Quando ho raccontato a mia madre che avevo visto del sangue,
mi ha abbracciato e mi ha chiamata come sempre aveva fatto: - Gioia. Sei
diventata una signorina! Non ho mai capito cosa volesse dire questo cambiamento
di status, ma se si rallegrava il seguito di quella faccenda non sarebbe stato poi
così brutto. Al di là delle mie ovaie, dico, c’era qualcosa di imponderabile
che mi metteva in relazione con lei e con molte altre. In ogni caso, rimasi
immobile su un divanetto di vimini per un tempo imprecisato, tipo statua di
sale. Non so per quale ragione ma quando mamma se ne accorse mi disse: - Guarda
che puoi fare tutto quello che vuoi, è uguale a prima. E in effetti ho potuto
fare sempre tutto quello che ho desiderato. Mi colpiva invece che le mie
compagne di classe per giustificarsi a scuola, nell’ora di educazione fisica, dicessero
che erano indisposte. Dal canto mio, non ho mai patito un dolore che fosse uno.
Ed ero anche un po’ in imbarazzo perché sapevo da alcune amiche che per quella
che chiamavano “indisposizione” si poteva finire pure in ospedale tra dolori
lancinanti e medicinali non ben identificati. Il confronto con mia zia sul tema
è stato invece più vicino ad un altro sapere: - Cilla, (vezzeggiativo che più o
meno corrisponde ad un’affettività intraducibile), adesso stai attenta a
toccare l’acqua gelata perché potrebbero bloccarsi. Mi figuravo così le mie
ovaie che improvvisamente mi si atrofizzavano per un divieto venuto chissà da
dove. Sicuramente in quel «Professione donna» non c’era scritto tutto, era un
altro tipo di pericolo su cui non ero stata edotta. Dunque ha continuato: -
Perché l’acqua quando è gelata, mhm (con quel suo viso tutto corrucciato che
presagiva cose non ben controllabili), coro meu! (che tradotto risulterebbe: cuore
mio!). Ma in quel coro meu dalla voce
graffiata di mia zia, c’era una specie di sottile struggimento per una
condivisione e insieme una forza che in quel momento non potevo immaginare
interamente. Un’intermittenza ancora senza ordito che andava ben oltre il gesto
mensile di prendermi cura delle mie mestruazioni. C’era, tra le altre cose, un
corpo che non sapevo di essere e di potermi autorizzare a sentire. [Alessandra]
Se volete raccontarvi: ritentasaraipiufortunato@outlook.it
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