martedì 11 aprile 2023

Su Milano e in generale.

Giusto qualche pensiero sparso su quanto accaduto a Milano.

Quello che una donna decide sono affari suoi, che nessunə deve permettersi di giudicare secondo il proprio, spesso discutibile, metro.

La culla per la vita, così come il parto in anonimato in ospedale e l'aborto sono tutte cose che la donna ha il pieno diritto di scegliere in base alle sue proprie riflessioni,  di cui non deve dare conto a nessuno.

L'uso della culla per la vita e la scelta del parto in anonimato,  come dice il nome stesso, devono rimanere un fatto privato e, ma pensa, anonimo. Dare in pasto all'opinione pubblica una storia come quella di Milano è da infami. 
Colpevolizza la donna di cui si sta parlando e tutte quelle che hanno fatto o pensano di fare la stessa scelta, mettendo peraltro queste ultime in pericolo. 
Perché, diciamolo, chi di noi vorrebbe trovare la nostra vita buttata a cazzo di cane su giornali, orrende trasmissioni TV e social network? Quante donne leggendo lo schifo che sta uscendo in questi giorni decideranno di evitare la culla per la vita? E con quali conseguenze?

L'aiuto promesso da gente di spettacolo, poi, fa schifo. Non ci sono altre parole per dirlo.
Vieni, mammina, il tizio famoso che spara cazzate in TV ti darà due spicci, si firmerà "zio"  farà un bel video da mandare in rete e tutto andrà bene.

L'appello del neonatologo della Mangiagalli, poi, è l'apoteosi della merda. Con quale diritto si permette di parlare e giudicare, nei fatti, di cose che non lo riguardano?

Un passo indietro e impariamo a rispettare le scelte altrui. Anche se pare che quando si tratta di scelte delle donne la cosa risulta  molto difficile ai più.

venerdì 13 gennaio 2023

Chiara dacce i soldi.

Chiara Ferragni devolverà il suo compenso per Sanremo (che non ho controllato a quanto ammonterà, ma presumo sia più di quanto io potrò guadagnare nei prossimi 5 anni) all'associazione Di.Re - Donne in Rete contro la violenza

È solo per farsi pubblicità!

La vera beneficienza si deve fare in silenzio!

Ora, posto che io non credo che Ferragni abbia bisogno di farsi pubblità donando soldi a un'Associazione antiviolenza, se anche fosse, sticazzi. Lei ha tirato fuori i soldi. Soldi che alle associazioni che si occupano di violenza sulle donne mancano, soldi che le istituzioni paiono fare sempre un'enorme fatica a tirar fuori nei loro bilanci.

Inoltre (ma credo di averlo detto già mille altre volte),
Ferragni arriva a un "pubblico" di ragazzine e ragazze che spesso a noi ci schifa, che non ci capisce e che non capiamo. Soprattutto arriva a un numero di ragazzine, ragazze e donne che noi se lo sognamo la notte. Quindi sticazzi pure della beneficienza silenziosa. Ferragni che parlerà di violenza di genere a Sanremo lo farà a migliaia (milioni? Boh, non so quanta gente guardi Sanremo) di persone, donne, uomini, ragazze e ragazzi.
Ci sputiamo sopra? Non mi pare il caso.

Poi, oh, se vogliamo fare un discorso su capitalismo, cultura dell'immagine, (sovra)esposizione della propria vita privata e tutto il resto per me va bene, eh. Avrei un sacco di cose da dire, giuro. E Ferragni non ne uscirebbe bene.
Non è femminista come piace a noi? Non è una vera attivista, una dura e pura?
Probabile. Sicuro, anzi.

Ma, per ora, credo vada bene così.

 

P.S. + Ferragni - Terragni



giovedì 17 novembre 2022

Il privilegio a Bali


Sì, Meloni ha tutto il diritto di portarsi la pupa a Bali o dove meglio crede.
Ha ragione (che orrore le parole “ha ragione” riferite a Meloni!) quando dice che il modo che lei sceglie per essere madre è solo affar suo.

E però fa sorridere leggere alcune (niente schwa né maschile universale, proprio “alcune” al femminile) applaudire a questa scelta come fa Terragni, parlando addirittura (cito) di “un ottimo auspicio per tutte le madri”.

Quale auspicio per una madre che non gode del privilegio di potersi portare figlə e (presumibilmente) tata appresso (perché non credo che la piccola Ginevra abbia passato ore al tavolo del G20, né sola in albergo)?

Quale auspicio in un paese che quando ə figlə compiono di 3 anni pensa che è tutto finito, non si ammaleranno più, non avranno più bisogno di te e quindi ti “regala” 5 giorni all’anno di permesso (non retribuito) per “malattia bambino”? 

Quale auspicio in un paese che si bulla di aver innalzato a ben 10 giorni il congedo obbligatorio per i padri (da usufruire entro 5 mesi, perché poi tanto ci sta mamma)? 

Quale auspicio per noi che quando andiamo a fare un colloquio di lavoro ci sentiamo chiedere se abbiamo figlə, se ne vogliamo, come potremmo conciliare le loro vite col nostro lavoro?

Quale auspicio per una madre (perché è inutile essere ipocrita, è della madre, qua, che si parla. Madre di famiglia tradizionale, ovviamente) che non riesce a trovare posto al nido comunale e però deve tornare al lavoro perché uno stipendio serve sempre? O per quelle madri che vengono licenziate in quanto madri e non riescono a rientrare nel meraviglioso mondo del lavoro?

Meloni e Ginevra sono due privilegiate.
Beate loro.

Se proprio vogliamo parlare, parliamo del privilegio, piuttosto.

E soprattutto cominciamo a pretendere di più per tuttə noi.

sabato 18 settembre 2021

In fondo al desiderio.


Maddalena Vianello
In fondo al desiderio.
Dieci storie di Procreazione assistita.
Fandango Libri, 2021



Tempo fa mi scrive Tiziana Triana, editora di Fandango, dicendomi che una donna, una femminista, "una di noi", insomma, sta scrivendo un libro sulla procreazione medicalmente assistita e che lei ha pensato a me, che non ho mai fatto mistero su come i miei figli sono venuti al mondo, per raccontarle la mia storia.

Non ho esitato un istante. 

Ero in una delle mie scoppiettanti estati al paese con i bambini, quindi le ho solo detto "aspettatemi e sono tutta vostra".

 
Dopo un paio di telefonate molto "professionali" con Maddalena,  che mi ha accennato al progetto, mi metto a spulciare Facebook: chi sei? Da dove vieni? Abbiamo amicizie in comune?
Poi la sopresa: io e Maddalena Vianello ci conosciamo dai tempi del liceo, abbiamo un più che carissimo amico in comune. Quindi le ho mandato un messaggio, poche parole: Madda, ma so' Lola! 

Tutto era così perfetto, quasi un segno.

Chi mi conosce lo sa, del mio percordo di PMA ho parlato e parlo molto, sono convinta che farlo sia anche una questione di militanza. Parlarne per allontanare la vergogna per non esserci riuscite "normalmente", il timore di non farcela, ma anche per gioire insieme, per condividere informazioni.

E invece il femminismo sulla PMA pare tacere.

Lo dice bene Barbara Leda Kenny nell'introduzione: 

In generale, mentre le politiche della prevenzione e dell'interruzione di gravidanza fanno parte del dibattito femminista, sulle tecniche di fecondazione assistita ci sono invece poche riflessioni e poca elaborazione di pensiero. Di conseguenza chi intraprende questo percorso si ritrova da sola a interrogarsi sui limiti e prendere decisioni, o, peggio, lasciata in compania della retorica istituzionale e patriarcale tesa alla colpevolizzazione delle donne.

È ora che noi donne prendiamo parola anche qui. Anche per la PMA la prima e l'ultima parola devono essere le nostre. Noi conosciamo i nostri corpi, noi viviamo i nostri desideri, noi ci incontriamo e scontiamo coi nostri limiti. Non tenere conto di questo è nascondere la testa sotto la sabbia: sono sempre di più le donne che ricorrono alla PMA, per mille motivi. Donne sole, donne in coppia, donne etero e lesbiche e le loro voci vanno ascoltate.

Dieci donne in questo libro raccontano la loro storia.
Maddalena, l'autrice, inizia con la sua perché, scrive, "il personale è politico e perché non potevo chiedere alle altre di mettersi a nudo senza farlo per prima".

Io ho spiattellato tutto.
Ci siamo incontrate in un bel pomeriggio di fine estate a Villa Pamphilij. Abbiamo parlato, riso, ci siamo commosse. E ci siamo raccontate senza paure, senza censure né ipocrisie.
E come me le altre donne presenti nel libro con le loro storie.

Credo che questo sia un libro potente, bellissimo e soprattutto necessario.

Ieri ho scritto a Maddalena che "dovrebbero darlo nelle sale d'attesa dei centri".

E non stavo esagerando.


venerdì 17 settembre 2021

Esasperante.

Mi chiedo se abbia senso riprendere questo blog fermo ormai da tempo (ah, i figli, signora mia, te succhiano la vita...) per parlare dell'ultima uscita di Barbara Palombelli e mi dico che sì, ha senso.

Non perché io abbia qualcosa di particolarmente illuminante da dire, anzi, ma perché sento l'urgenza di urlare la mia rabbia. Feroce.

Durante una puntata di Forum, programma inspiegabilmente più che longevo, in onda dal 1985 sulle reti Mediaset e attualmente condotto, appunto da Barbara Palombelli, "giornalista, conduttrice televisiva e conduttrice radiofonica italiana" da ben 9 anni, la conduttrice ha voluto commentare l'ultima settimana, che ha visto 7 donne morte ammazzate, con queste parole:

"Come sapete, negli ultimi sette giorni ci sono stati sette delitti, sette donne uccise presumibilmente da sette uomini. Questo soltanto per dire dell'ultima settimana. Però a volte è lecito anche domandarsi: questi uomini erano completamente fuori di testa, erano completamente obnubilati, oppure c’è stato anche un comportamento esasperante, aggressivo anche dall’altra parte? È una domanda, dobbiamo farcela per forza perché dobbiamo in questa sede, soprattutto in un tribunale, esaminare tutte le ipotesi"

Questa cosa ha un nome, si chiama "victim blaming" ed è quello che capita sempre quando una donna viene picchiata, quando viene stuprata, quando viene uccisa.

Le parole di Palombelli sono facilmente traducibili con un "non è che un po' se la sono cercata?"

Il "te la sei cercata" ci accompagna da sempre, in quanto donne, impariamo presto a conoscerlo, in linea di massima dai 13 anni in poi tutte noi almeno una volta lo abbiamo incontrato sulle nostre strade.

Ti hanno messo la mano sul culo in tram? Be', con quella gonna corta un po' te la sei cercata.

Il tipo con cui sei uscita ti ha stuprata? Be', sei uscita sola con lui, magari hai anche bevuto, un po' te la sei cercata.

Durante il ricevimento il prof. ha fatto apprezzamenti non graditi? Be', con quella maglietta troppo scollata un po' te la sei cercata.

Tuo marito ti ammazza? Be', ma tu lo esasperavi, un po' te la sei cercata.

Con quella domanda che "dobbiamo farci per forza" Palombelli persegue l'idea che sia la vittima a doversi difendere. Ve lo ricordate il delitto del Circeo? Pareva che a difendersi dovesse essere Donatella, che, diciamolo, "un po' se l'era cercata".

E cosa c'è di diverso tra le parole degli avvocati degli assassini e stupratori del Circeo e quelle di Palombelli?

Nessuna.

Per entrambi la colpa è, a conti fatti, della donna.

Che provoca, esaspera, se la cerca.

Palombelli ha però un grande merito: mostra senza ombra di dubbio e senza possibilità di errore che il patriarcato insozza tutti e tutte, che nemmeno le donne, vittime di una società patriarcale da qualche millennio, sono fuori da quella lordura.

Sta a noi, amiche, sorelle, continuare a scardinare certi meccanismi, per far sì che certe idee vengano cancellate dalla storia.

Lo stiamo facendo, continueremo a farlo.

Anche senza donne come Palombelli accanto.

Soprattutto senza donne come Palombelli accanto.


Siamo il grido altissimo e feroce, di tutte quelle donne che più non hanno voce.



mercoledì 26 maggio 2021

W la mamma

Può una madre dirsi “pentita” senza troppi giri di parole e nonostante tutto affermare altrettanto sinceramente di amare i propri figli e figlie?

O meglio, possiamo noi accettare una madre che lo affermi? La riconosciamo ancora come “simile” o è solo un mostro?

Mi è capitato davanti un pezzo de “Il milanese imbruttito” (mammamia, la monnezza) in cui si racconta la storia di Karla Tenório, che si dichiara, sulla sua pagina Instagram, “madre pentita”, @maearrependida.

Purtroppo è in portoghese, ma da quello che sono riuscita a capire da una rapida scorsa, parla di difficoltà, paure, depressione e di tutta quella marea di conseguenze legate alla maternità su cui troppo spesso non ci si vuole soffermare (poi, sì, ne st facendo un lavoro, ma saranno anche beatissimi cazzi suoi).

“[…] Capire il mio sentimento, accogliere il mio rimpianto, pensarci, assumere me stessa e il mondo e dire ad alta voce IO SONO UNA MADRE PENTITA è stato ciò che ha liberato lo spazio dentro di me per far emergere altri sentimenti. Con meno spazio occupato dal senso di colpa, è cresciuto l'amore, è cresciuta la felicità e ho capito che ho qualcosa da offrire al mondo. Può non essere perfetto, può non essere completo, ma è quello che ho! E lo trovo bellissimo. […] Abbiamo urgente bisogno di parlare della vera maternità, della romanticizzazione, della pressione sociale. Ah, c'è così tanto! […]”

Quello che mi interessa non è la pagina della tizia, la sua storia personale, ma se crediamo che una madre abbia il diritto di dire certe cose, esplicitare il tabù dei tabù: mi pento di essere madre, non mi piace essere madre, non mi riempie di gioia essere madre.

Che non vuol dire odiare i propri figli e figlie, ma essere più o meno consapevoli di trovarsi strette in un ruolo che non ci appartiene veramente, o comunque non del tutto. Anzi, come afferma Tenório, arrivare a questa presa di coscienza potrebbe addirittura essere salvifico, cancellare il senso di colpa "per fare emergere altri sentimenti", per fare spazio a una nuova consapevolezza, a un nuovo modo di essere madri, il migliore per noi e per i nostri figli e figlie.

Indubbiamente la cosa può essere disturbante, non possiamo evitare di metterci immediatamente nei panni delle figlie e dei figli di queste madri, ma loro?
Queste donne esistono e non possiamo ignorarle o limitarci a giudicarle nel migliore dei casi delle stronze egoiste che stanno rovinando la vita del frutto del loro ventre e che non sono altro che un insulto alle donne sterili del mondo intero.

Al contrario, io sono convinta che vadano ascoltate con attenzione e che il loro vissuto possa essere importante e di aiuto per tutte, perché affermazioni tanto forti si scontrano con l’idea che la maternità sia il nostro unico destino in quanto donne e che necessariamente sarà la cosa più bella che potrà mai capitarci. L’unica cosa bella che potrà capitarci. E che ci renderà finalmente complete e realizzate, delle vere Donne.
L’idea rosea della maternità, il perenne racconto quasi mistico della gravidanza, dell’allattamento, dei primi sorrisi e delle prime parole: “ma davvero non hai pianto quando ti hanno detto “mamma” la prima volta?”

Se davvero vogliamo (vogliamo?) portare avanti una lotta ad una certa retorica sulla maternità, che ci divide senza appello in angeli amorevoli, pronte al sacrificio e all’annullamento della nostra persona in nome di un amore più grande o in orrendi mostri e potenziali assassine, allora anche le voci di queste donne, per quanto possano sembrarci stonate e disturbanti, meritano di essere ascoltate.

Penso anche che la presa di coscienza che può scaturire da questo ascolto potrebbe essere di aiuto a madri e figli/e, perché il non detto, col suo portato di astio, risentimento, rabbia, non può che condurre a un conflitto difficile se non impossibile da risolvere.
Parlare invece davvero di quello che succede a una donna che diventa madre e che per motivi che sono solo i suoi, che nessuna può giudicare, arriva a dichiararsi “pentita”, può forse aiutare a comprendere e comprendersi. O quantomeno a offrire uno sguardo diverso a quelle che non riescono a trovare la propria collocazione in un mondo in cui la maternità ci trasforma da “persone” in qualcosa di diverso, che trascende (dovrebbe trascendere) il nostro stesso essere.

Prima di essere madri siamo donne, col nostro vissuto, i nostri desideri, le nostre paure e continuare a nasconderci o vergognarci di parlare sinceramente di quello che ci succede non potrà che isolarci e intrappolarci in un ruolo, quello della Mamma amorevole e perfetta, che non sempre ci appartiene e nel quale non tutte ci riconosciamo.

Sono convinta sempre di più, soprattutto da quando sono madre, che nulla possa farci bene quanto parlare sinceramente della nostra esperienza, anche quando sappiamo che la reazione di chi ci ascolta sarà di orrore, scherno, disprezzo.
Parlare della fatica, della tristezza, delle difficoltà senza vergognarci, senza pensare a come potrebbe reagire chi abbiamo davanti perché a volte essere madri non è abbastanza, non è tutto, non è la sola cosa che vogliamo dire come risposta a “chi sei tu?”


 

 

 

mercoledì 21 aprile 2021

Il tempo giusto.

 

 
Quando il vecchio che abitava a due passi da casa nostra al paese mi mise le mani addosso, strusciando il pisello duro contro di me dicendomi all’orecchio con quel suo alito fetido “dopo vieni alla baracchetta”, io non dissi niente: mi limitai a divincolarmi e scappare. Ricordo che lo feci sorridendo correndo giù per la discesa che collegava le nostre case. Tornai a casa e non dissi niente a nessuno.

Mia mamma e mia zia capirono che qualcosa non andava perché da quel momento smisi di andare a giocare coi gattini nati da poco, col bellissimo cane Giordano e a chiedere a sua moglie e a sua cognata (abitavano nello stesso borghetto, due case attaccate e davanti l'aia con la legna) di poter fare la colazione “dei grandi”, quella che preparava per suo figlio che tornava dal primo giro in stalla.

Dissi di no a nonna quando mi chiese di andare a portare alle due donne, due meravigliose vecchiette che mi adoravano, un pacco di zucchero e uno di caffè.

Mamma e zia mi presero da parte e mi fecero parlare.

Mi ricordo benissimo la faccia terrorizzata di mamma e quella incazzata di zia. Avevo otto anni e le estati al paese erano bellissime, sia io che la mia famiglia non pensavamo che nulla lì avrebbe potuto essere un pericolo, a parte i cani pecorari della famiglia che abitava in fondo alla curva, prima che la strada diventasse sterrata e si infilasse tra i campi verso le stalle.

Mi dissero di non dire nulla a papà e ai miei zii, credo pensassero che lo avrebbero fatto a pezzi, ma mi dissero anche che non avrei dovuto mai più andare sola in quelle case, che avrebbero detto loro a nonna che non ero una bimba disobbediente e che zucchero e caffè lo avrebbero consegnato alle due donne quando sarebbero tornate dalla stalla passando davanti casa nostra.

Io non lo dissi.

Ricordo che una volta ero con mia zia sulla strada che porta alla fonte e lo incontrammo. Lui salutò, lei gli sibilò che non avrebbe mai dovuto nemmeno guardarmi, gli diede uno spintone. Lui farfugliò qualcosa, ma bastò lo sguardo di zia per farlo tacere. Giorni dopo portava sulle spalle la statua della Madonna durante la processione. Ricordo che la cosa mi pareva assurda, pur non venendo da una famiglia religiosa, il suo comportamento mi pareva stridere fortemente con quello che mi era stato detto sulla Madonna e sul cristianesimo in generale. 

Fino al giorno in cui è morto non mi ha mai più rivolto la parola, io non sono mai salita a vedere i gattini e solo da adolescente ho ricominciato ad andare sola a salutare le vecchiette, che mi dicevano "te si' fatta forestiera" senza sapere quanto mi dispiacesse non andare più a trovarle.

Mi sento ancora oggi, a 41 anni, in colpa per non aver detto niente, perché lui aveva due nipoti, una di loro con un grave ritardo, e una parte di me ancora trema all’idea che quella ragazzina passasse settimane in quella casa durante le vacanze.

Credo che mio padre e gli zii lo abbiano saputo dopo la morte di mia madre, trent’anni dopo, mentre a tavola tutti insieme ci raccontavamo degli anni passati, di come passavamo le estati tutti insieme lì, di quanto fosse bello.

Ora, io non sono stata stuprata e so bene che la mia esperienza è parecchio diversa da ciò di cui si sta tanto discutendo in questi giorni, ma lo sto raccontando (di nuovo, ogni tanto mi scappa)  per dire che no, cari e care, non esiste un “tempo giusto” per denunciare una violenza.

Le donne che denunciano una violenza non vengono mai credute. La loro vita, le loro abitudini sessuali, tutto è passato al setaccio, perché quello che davvero conta è accusarle, demolirle, colpevolizzarle.

Lo si capisce benissimo (ri)guardando "Processo per stupro". Quasi nulla pare essere cambiato da allora.

C'è poco da stupirsi, quindi, se tante donne decidono di non denunciare.
Alcune non denunciano mai e vivono tutta la vita senza dire a nessuno quello che è successo, tenendosi dentro un segreto enorme e doloroso.

Alcune donne hanno paura, altre vogliono solo rimuovere e andare avanti, altre ancora sono devastate dal senso di colpa (sì, capita a molte di sentirsi in colpa per essere state violentate).

Dire che “non può essere stato stupro” perché la denuncia è mancata, o è stata "tardiva", o lei non ha urlato abbastanza, non ha addosso abbastanza segni, non è stata capace di dire un chiaro “no”, era ubriaca, stava flirtando, è un’ulteriore violenza, subdola e dolorosissima. Un'ulteriore vittimizzazione che sposta completamente l'asse del discorso, dimenticando chi la violenza la agisce, per concentrarsi sulle pesunte mancanze della vittima.

Ridere dello stupro, fare battute, minimizzare, è violenza.
È complicità.
Ed è una delle più chiare manifestazioni della cultura dello stupro, che nel patriarcato si nutre e sguazza.