mercoledì 26 maggio 2021

W la mamma

Può una madre dirsi “pentita” senza troppi giri di parole e nonostante tutto affermare altrettanto sinceramente di amare i propri figli e figlie?

O meglio, possiamo noi accettare una madre che lo affermi? La riconosciamo ancora come “simile” o è solo un mostro?

Mi è capitato davanti un pezzo de “Il milanese imbruttito” (mammamia, la monnezza) in cui si racconta la storia di Karla Tenório, che si dichiara, sulla sua pagina Instagram, “madre pentita”, @maearrependida.

Purtroppo è in portoghese, ma da quello che sono riuscita a capire da una rapida scorsa, parla di difficoltà, paure, depressione e di tutta quella marea di conseguenze legate alla maternità su cui troppo spesso non ci si vuole soffermare (poi, sì, ne st facendo un lavoro, ma saranno anche beatissimi cazzi suoi).

“[…] Capire il mio sentimento, accogliere il mio rimpianto, pensarci, assumere me stessa e il mondo e dire ad alta voce IO SONO UNA MADRE PENTITA è stato ciò che ha liberato lo spazio dentro di me per far emergere altri sentimenti. Con meno spazio occupato dal senso di colpa, è cresciuto l'amore, è cresciuta la felicità e ho capito che ho qualcosa da offrire al mondo. Può non essere perfetto, può non essere completo, ma è quello che ho! E lo trovo bellissimo. […] Abbiamo urgente bisogno di parlare della vera maternità, della romanticizzazione, della pressione sociale. Ah, c'è così tanto! […]”

Quello che mi interessa non è la pagina della tizia, la sua storia personale, ma se crediamo che una madre abbia il diritto di dire certe cose, esplicitare il tabù dei tabù: mi pento di essere madre, non mi piace essere madre, non mi riempie di gioia essere madre.

Che non vuol dire odiare i propri figli e figlie, ma essere più o meno consapevoli di trovarsi strette in un ruolo che non ci appartiene veramente, o comunque non del tutto. Anzi, come afferma Tenório, arrivare a questa presa di coscienza potrebbe addirittura essere salvifico, cancellare il senso di colpa "per fare emergere altri sentimenti", per fare spazio a una nuova consapevolezza, a un nuovo modo di essere madri, il migliore per noi e per i nostri figli e figlie.

Indubbiamente la cosa può essere disturbante, non possiamo evitare di metterci immediatamente nei panni delle figlie e dei figli di queste madri, ma loro?
Queste donne esistono e non possiamo ignorarle o limitarci a giudicarle nel migliore dei casi delle stronze egoiste che stanno rovinando la vita del frutto del loro ventre e che non sono altro che un insulto alle donne sterili del mondo intero.

Al contrario, io sono convinta che vadano ascoltate con attenzione e che il loro vissuto possa essere importante e di aiuto per tutte, perché affermazioni tanto forti si scontrano con l’idea che la maternità sia il nostro unico destino in quanto donne e che necessariamente sarà la cosa più bella che potrà mai capitarci. L’unica cosa bella che potrà capitarci. E che ci renderà finalmente complete e realizzate, delle vere Donne.
L’idea rosea della maternità, il perenne racconto quasi mistico della gravidanza, dell’allattamento, dei primi sorrisi e delle prime parole: “ma davvero non hai pianto quando ti hanno detto “mamma” la prima volta?”

Se davvero vogliamo (vogliamo?) portare avanti una lotta ad una certa retorica sulla maternità, che ci divide senza appello in angeli amorevoli, pronte al sacrificio e all’annullamento della nostra persona in nome di un amore più grande o in orrendi mostri e potenziali assassine, allora anche le voci di queste donne, per quanto possano sembrarci stonate e disturbanti, meritano di essere ascoltate.

Penso anche che la presa di coscienza che può scaturire da questo ascolto potrebbe essere di aiuto a madri e figli/e, perché il non detto, col suo portato di astio, risentimento, rabbia, non può che condurre a un conflitto difficile se non impossibile da risolvere.
Parlare invece davvero di quello che succede a una donna che diventa madre e che per motivi che sono solo i suoi, che nessuna può giudicare, arriva a dichiararsi “pentita”, può forse aiutare a comprendere e comprendersi. O quantomeno a offrire uno sguardo diverso a quelle che non riescono a trovare la propria collocazione in un mondo in cui la maternità ci trasforma da “persone” in qualcosa di diverso, che trascende (dovrebbe trascendere) il nostro stesso essere.

Prima di essere madri siamo donne, col nostro vissuto, i nostri desideri, le nostre paure e continuare a nasconderci o vergognarci di parlare sinceramente di quello che ci succede non potrà che isolarci e intrappolarci in un ruolo, quello della Mamma amorevole e perfetta, che non sempre ci appartiene e nel quale non tutte ci riconosciamo.

Sono convinta sempre di più, soprattutto da quando sono madre, che nulla possa farci bene quanto parlare sinceramente della nostra esperienza, anche quando sappiamo che la reazione di chi ci ascolta sarà di orrore, scherno, disprezzo.
Parlare della fatica, della tristezza, delle difficoltà senza vergognarci, senza pensare a come potrebbe reagire chi abbiamo davanti perché a volte essere madri non è abbastanza, non è tutto, non è la sola cosa che vogliamo dire come risposta a “chi sei tu?”