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Lo so, non si dovrebbe mai parlare di un libro senza aver prima finito di leggerlo, ma questo studio di Orna Donath, sociologa israeliana, mi ha colpita sin dalla prefazione.
Donath ha intervistato 23 donne sul loro essere madri.
Ho trovato non pochi punti di contatto con alcune di loro.
Amo molto i miei figli, ma mentirei se dicessi senza se e senza ma che non tornerei mai indietro.
E non è solo il sacrosanto sfogo dopo ore di lagna o qualche notte insonne, è qualcosa di più profondo che nemmeno io so spiegare.
E nemmeno posso farlo, perché una madre, semplicemente, certe cose non le può nemmeno pensare, figuriamoci dirle ad alta voce.
Non possiamo dire che questo ruolo non necessariamente ci appartiene e spesso non ci basta.
Non possiamo dire che ci manca la nostra vita di non madri, quando non eravamo "la mamma di", ma donne con i nostri desideri, le nostre abitudini, i nostri interessi.
Se proviamo a parlarne per chi ci ascolta pare quasi di sentire una bestemmia, come se una volta rimasta incinta e dopo il parto si dovesse rinunciare al proprio stesso nome in virtù di qualcosa di più importante, totalizzante, che cambierà per sempre il nostro esserci nel mondo.
Sarebbe interessante se una ricerca simile fosse fatta in Italia, un paese in cui la mistica della maternità si fa sentire prepotente in ogni ambito, anche da parte di certo femminismo che continua a legare indissolubilmente l'essere donna con la capacità (possibilità) di procreare, dove "la mamma è sempre la mamma" . Il paese dei "bamboccioni", della 194 sempre inapplicata, il paese in cui certe femministe ci dicono che i figli se non li fai a vent'anni poi non li devi fare più per non regalare soldi a "big pharma" , il paese dei consultori che chiudono, delle Case delle Donne che vengono sgomberate, il paese della conferenza sulla famiglia a Verona.
Uh, se ci sarebbe da ridere.
*Orna Donath
Pentirsi di essere madri. Storie di donne che tornerebbero indietro.
Sociologia di un tabù.
Bollati Boringhieri, 2017