mercoledì 21 aprile 2021

Il tempo giusto.

 

 
Quando il vecchio che abitava a due passi da casa nostra al paese mi mise le mani addosso, strusciando il pisello duro contro di me dicendomi all’orecchio con quel suo alito fetido “dopo vieni alla baracchetta”, io non dissi niente: mi limitai a divincolarmi e scappare. Ricordo che lo feci sorridendo correndo giù per la discesa che collegava le nostre case. Tornai a casa e non dissi niente a nessuno.

Mia mamma e mia zia capirono che qualcosa non andava perché da quel momento smisi di andare a giocare coi gattini nati da poco, col bellissimo cane Giordano e a chiedere a sua moglie e a sua cognata (abitavano nello stesso borghetto, due case attaccate e davanti l'aia con la legna) di poter fare la colazione “dei grandi”, quella che preparava per suo figlio che tornava dal primo giro in stalla.

Dissi di no a nonna quando mi chiese di andare a portare alle due donne, due meravigliose vecchiette che mi adoravano, un pacco di zucchero e uno di caffè.

Mamma e zia mi presero da parte e mi fecero parlare.

Mi ricordo benissimo la faccia terrorizzata di mamma e quella incazzata di zia. Avevo otto anni e le estati al paese erano bellissime, sia io che la mia famiglia non pensavamo che nulla lì avrebbe potuto essere un pericolo, a parte i cani pecorari della famiglia che abitava in fondo alla curva, prima che la strada diventasse sterrata e si infilasse tra i campi verso le stalle.

Mi dissero di non dire nulla a papà e ai miei zii, credo pensassero che lo avrebbero fatto a pezzi, ma mi dissero anche che non avrei dovuto mai più andare sola in quelle case, che avrebbero detto loro a nonna che non ero una bimba disobbediente e che zucchero e caffè lo avrebbero consegnato alle due donne quando sarebbero tornate dalla stalla passando davanti casa nostra.

Io non lo dissi.

Ricordo che una volta ero con mia zia sulla strada che porta alla fonte e lo incontrammo. Lui salutò, lei gli sibilò che non avrebbe mai dovuto nemmeno guardarmi, gli diede uno spintone. Lui farfugliò qualcosa, ma bastò lo sguardo di zia per farlo tacere. Giorni dopo portava sulle spalle la statua della Madonna durante la processione. Ricordo che la cosa mi pareva assurda, pur non venendo da una famiglia religiosa, il suo comportamento mi pareva stridere fortemente con quello che mi era stato detto sulla Madonna e sul cristianesimo in generale. 

Fino al giorno in cui è morto non mi ha mai più rivolto la parola, io non sono mai salita a vedere i gattini e solo da adolescente ho ricominciato ad andare sola a salutare le vecchiette, che mi dicevano "te si' fatta forestiera" senza sapere quanto mi dispiacesse non andare più a trovarle.

Mi sento ancora oggi, a 41 anni, in colpa per non aver detto niente, perché lui aveva due nipoti, una di loro con un grave ritardo, e una parte di me ancora trema all’idea che quella ragazzina passasse settimane in quella casa durante le vacanze.

Credo che mio padre e gli zii lo abbiano saputo dopo la morte di mia madre, trent’anni dopo, mentre a tavola tutti insieme ci raccontavamo degli anni passati, di come passavamo le estati tutti insieme lì, di quanto fosse bello.

Ora, io non sono stata stuprata e so bene che la mia esperienza è parecchio diversa da ciò di cui si sta tanto discutendo in questi giorni, ma lo sto raccontando (di nuovo, ogni tanto mi scappa)  per dire che no, cari e care, non esiste un “tempo giusto” per denunciare una violenza.

Le donne che denunciano una violenza non vengono mai credute. La loro vita, le loro abitudini sessuali, tutto è passato al setaccio, perché quello che davvero conta è accusarle, demolirle, colpevolizzarle.

Lo si capisce benissimo (ri)guardando "Processo per stupro". Quasi nulla pare essere cambiato da allora.

C'è poco da stupirsi, quindi, se tante donne decidono di non denunciare.
Alcune non denunciano mai e vivono tutta la vita senza dire a nessuno quello che è successo, tenendosi dentro un segreto enorme e doloroso.

Alcune donne hanno paura, altre vogliono solo rimuovere e andare avanti, altre ancora sono devastate dal senso di colpa (sì, capita a molte di sentirsi in colpa per essere state violentate).

Dire che “non può essere stato stupro” perché la denuncia è mancata, o è stata "tardiva", o lei non ha urlato abbastanza, non ha addosso abbastanza segni, non è stata capace di dire un chiaro “no”, era ubriaca, stava flirtando, è un’ulteriore violenza, subdola e dolorosissima. Un'ulteriore vittimizzazione che sposta completamente l'asse del discorso, dimenticando chi la violenza la agisce, per concentrarsi sulle pesunte mancanze della vittima.

Ridere dello stupro, fare battute, minimizzare, è violenza.
È complicità.
Ed è una delle più chiare manifestazioni della cultura dello stupro, che nel patriarcato si nutre e sguazza.