Nella sezione dell'Ufficio Stato Civile del sito del mio Municipio leggo:
Le donne divorziate possono contrarre nuovo matrimonio solo se sono trascorsi trecento giorni dalla data del divorzio annotata a margine della copia dell'atto di matrimonio.
Le donne vedove possono risposarsi solo dopo trecento giorni dalla morte del marito.
Scopro che è l'art. 89 del Codice Civile (seh, "civile"...):
Art. 89 Divieto temporaneo di nuove nozze
Non può contrarre matrimonio la donna, se non dopo trecento giorni dallo scioglimento, dall'annullamento o dalla cessazione degli effetti civili del precedente matrimonio. Sono esclusi dal divieto i casi in cui lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del precedente matrimonio siano stati pronunciati in base all'art. 3, n. 2, lett. b) ed f), della L. 1° dicembre 1970, n. 898, e nei casi in cui il matrimonio sia stato dichiarato nullo per impotenza, anche soltanto a generare, di uno dei coniugi.
Il tribunale con decreto emesso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, può autorizzare il matrimonio quando è inequivocabilmente escluso lo stato di gravidanza o se risulta da sentenza passata in giudicato che il marito non ha convissuto con la moglie, nei trecento giorni precedenti lo scioglimento, l'annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Si applicano le disposizioni dei commi quarto, quinto e sesto dell'art. 84 e del comma quinto dell'art. 87.
Il divieto cessa dal giorno in cui la gravidanza è terminata.
Non sono abbastanza brava per andarmi a cercare di che anno è questa roba, mi parlano della legge Fortuna, del 1970, anno dell'introduzione del divorzio nel nostro ordinamento.
Dal 1970 ad oggi sono passati 42 anni, ma per il Codice Civile una donna continua ad essere considerata incapace di scegliere della propria vita.
Ancora, dopo 42 anni, una donna che vuole vivere la sua vita, è legata alla vita di un uomo.
Che sia vivo, che sia morto, che sia il suo ex, che sia il suo futuro, basta che sia un maschio.
Per gli uomini ovviamente 'sta cosa dei trecento giorni non vale: loro possono risposarsi quando ne hanno voglia, dopotutto nel loro apparato riproduttivo non c'è un utero.
Ora, il problema ovviamente non è il matrimonio in sé, ma quello che questo articolo ci dice.
Ci dice sopra ogni cosa che una donna per vivere la propria vita come meglio crede, deve aspettare che il futuro marito sia certo che lei non sia incinta di un altro uomo. Non sia mai che debba crescere la prole altrui.
Quello che si vuole tutelare qui è, come mi ha scritto una donna su facebook, "l'agio del maschio", che in quei trecento giorni continuerà ad avere -di fatto- il controllo della donna, oltre che essere "tutelato" da un'eventuale falsa paternità.
Per trecento lunghissimi giorni quella donna non sarà libera.
Sarà ostaggio di una legge che non la considera degna di decidere.
Ostaggio di una legge che dice che dal momento che lei ha una vagina, deve aspettare trecento giorni.
Una donna mi ha detto che non devo vederla come discriminante, ma "precauzionale".
Precauzionale.
Come quando vai in un paese lontano e ti fai l'antimalarica.
Come un vaccino.
Come quando mi prendo la xamamina per non vomitare in macchina: precauzioni.
Mi dicono che "i problemi sono altri" e che non si vedono poi "enormi limiti alla libertà sessuale delle persone, pur essendo quella norma vigente" (sic.) e che visto che la questione è solo simbolica, allora sarebbe il caso di occuparsi di cose più importanti, dei veri problemi delle donne (me lo dice un uomo, per inciso).
La stessa obiezione che si faceva alle donne che volevano votare, a quelle che volevano abortire senza rischiare morte e/o galera, che volevano il divorzio, che volevano la parità salariale.
C'è sempre qualcosa di più importante quando si parla dei diritti delle donne, fateci caso.
Mi dicono che si tratta di un "vecchio retaggio" e che in fondo è "logico", ma a me pare solo un altro modo per controllarci e per tenerci sempre dentro la solita strettissima gabbia di moglie e madre.
Mi dicono che il problema è che la burocrazia non sta al passo coi tempi, perché volendo ora per vedere se quel figlio è proprio tuo o se la sgualdrina che stai per sposare ha fatto le cosacce con un altro ci sono altri mezzi, ma la sola risposta che mi viene dal più profondo del cuore è: sti cazzi del retaggio culturale!
Sti cazzi di quello che succedeva quarantadue anni fa!
Siamo nel 2012 eppure per lo stato IO non sono considerata degna di scegliere cosa fare della mia vita, che continua per legge (!) ad essere legata ad un uomo, vivo o morto.
Ci mancano solo il consenso del padre e il lenzuolo col sangue della prima notte di nozze appeso alla finestra.
Come si fa a non capire che questo è discriminante?
Cosa c'è di tanto strano nel dire che se esiste una legge che mi impedisce di fare qualcosa perché sono donna questa è discriminazione e nient'altro?
Qual è quel cortocircuito per cui alcune donne non riescono a riconoscere come discriminante qualcosa che impedisce loro di agire, di pensare, di fare qualcosa solo perché sono nate femmine?
Non posso credere che per capire che se lo Stato (lo Stato! Lo Stato sono anche io, siamo tutte e tutti noi, non è una strana entità sovrannaturale!) mi impedisce di fare qualcosa perché ho la vagina non c'è retaggio che tenga: è discriminazione.