Può una madre dirsi “pentita” senza
troppi giri di parole e nonostante tutto affermare altrettanto sinceramente di
amare i propri figli e figlie?
O meglio, possiamo noi accettare
una madre che lo affermi? La riconosciamo ancora come “simile” o è solo un mostro?
Mi è capitato davanti un pezzo de “Il
milanese imbruttito” (mammamia, la monnezza) in cui si racconta la storia
di Karla Tenório, che si dichiara, sulla sua pagina Instagram, “madre
pentita”, @maearrependida.
Purtroppo è in portoghese, ma da
quello che sono riuscita a capire da una rapida scorsa, parla di difficoltà,
paure, depressione e di tutta quella marea di conseguenze legate alla maternità
su cui troppo spesso non ci si vuole soffermare (poi, sì, ne st facendo un lavoro, ma saranno anche beatissimi cazzi suoi).
“[…] Capire
il mio sentimento, accogliere il mio rimpianto, pensarci, assumere me stessa e
il mondo e dire ad alta voce IO SONO UNA MADRE PENTITA è stato ciò che ha
liberato lo spazio dentro di me per far emergere altri sentimenti. Con meno
spazio occupato dal senso di colpa, è cresciuto l'amore, è cresciuta la
felicità e ho capito che ho qualcosa da offrire al mondo. Può non essere
perfetto, può non essere completo, ma è quello che ho! E lo trovo bellissimo. […]
Abbiamo urgente bisogno di parlare della vera maternità, della
romanticizzazione, della pressione sociale. Ah, c'è così tanto! […]”
Quello che mi interessa non è la
pagina della tizia, la sua storia personale, ma se crediamo che una madre abbia
il diritto di dire certe cose, esplicitare il tabù dei tabù: mi pento di essere
madre, non mi piace essere madre, non mi riempie di gioia essere madre.
Che non
vuol dire odiare i propri figli e figlie, ma essere più o meno consapevoli di
trovarsi strette in un ruolo che non ci appartiene veramente, o comunque non
del tutto. Anzi, come afferma Tenório, arrivare a questa presa di coscienza potrebbe addirittura essere salvifico, cancellare il senso di colpa "per fare emergere altri sentimenti", per fare spazio a una nuova consapevolezza, a un nuovo modo di essere madri, il migliore per noi e per i nostri figli e figlie.
Indubbiamente la cosa può essere disturbante, non possiamo evitare di metterci immediatamente nei panni delle
figlie e dei figli di queste madri, ma loro?
Queste donne esistono e non
possiamo ignorarle o limitarci a giudicarle nel migliore dei casi delle stronze
egoiste che stanno rovinando la vita del frutto del loro ventre e che non sono
altro che un insulto alle donne sterili del mondo intero.
Al contrario, io sono convinta che vadano
ascoltate con attenzione e che il loro vissuto possa essere importante e di aiuto per
tutte, perché affermazioni tanto forti si scontrano con l’idea che la maternità
sia il nostro unico destino in quanto donne e che necessariamente sarà la cosa
più bella che potrà mai capitarci. L’unica cosa bella che potrà capitarci. E
che ci renderà finalmente complete e realizzate, delle vere Donne.
L’idea rosea
della maternità, il perenne racconto quasi mistico della gravidanza, dell’allattamento,
dei primi sorrisi e delle prime parole: “ma davvero non hai pianto quando ti
hanno detto “mamma” la prima volta?”
Se davvero vogliamo (vogliamo?)
portare avanti una lotta ad una certa retorica sulla maternità, che ci divide
senza appello in angeli amorevoli, pronte al sacrificio e all’annullamento
della nostra persona in nome di un amore più grande o in orrendi mostri e potenziali
assassine, allora anche le voci di queste donne, per quanto possano sembrarci
stonate e disturbanti, meritano di essere ascoltate.
Penso anche che la presa di
coscienza che può scaturire da questo ascolto potrebbe essere di aiuto a madri
e figli/e, perché il non detto, col suo portato di astio, risentimento, rabbia,
non può che condurre a un conflitto difficile se non impossibile da risolvere.
Parlare invece davvero di quello che succede a una donna che diventa madre e
che per motivi che sono solo i suoi, che nessuna può giudicare, arriva a
dichiararsi “pentita”, può forse aiutare a comprendere e comprendersi. O quantomeno
a offrire uno sguardo diverso a quelle che non riescono a trovare la propria
collocazione in un mondo in cui la maternità ci trasforma da “persone” in
qualcosa di diverso, che trascende (dovrebbe trascendere) il nostro stesso
essere.
Prima di essere madri siamo donne,
col nostro vissuto, i nostri desideri, le nostre paure e continuare a
nasconderci o vergognarci di parlare sinceramente di quello che ci succede non
potrà che isolarci e intrappolarci in un ruolo, quello della Mamma amorevole e
perfetta, che non sempre ci appartiene e nel quale non tutte ci riconosciamo.
Sono convinta sempre di più, soprattutto da
quando sono madre, che nulla possa farci bene quanto parlare sinceramente della
nostra esperienza, anche quando sappiamo che la reazione di chi ci ascolta sarà
di orrore, scherno, disprezzo.
Parlare della fatica, della tristezza, delle
difficoltà senza vergognarci, senza pensare a come potrebbe reagire chi abbiamo
davanti perché a volte essere madri non è abbastanza, non è tutto, non è la
sola cosa che vogliamo dire come risposta a “chi sei tu?”